Ove son or le meraviglie tue O regno di Sicilia? Ove son quelle Chiare memorie, onde potevi altrui Mostrar per segni le grandezze antiche?
(Dal Fazello - Storia di Sicilia, deca I,lib. VI,cap.I)
Obitu Maggiori
Obitu Maggior Con quest’appellativo si soleva indicare il funerale di lusso, destinato solamente alle persone agiate, i cosiddetti galantuomini. Per chiarire la definizione di cui sopra, bisogna dire che l’“Obitu” è un lascito di Messe e Uffici per defunti, ma in questo caso si fa riferimento ai funerali praticati per le diverse categorie sociali.
L’Obitu era di tre specie: maggiore per i nobili e il ceto medio; di quaranta tarì e “nicu”; mentre i meno abbienti avevano diritto solo a pochi rintocchi di campana.
Da premettere che, mentre il funerale di prima classe si celebrava esclusivamente nella chiesa di San Sebastiano (Parrocchia), presente sempre la salma del defunto, gli altri si svolgevano nelle chiese rionali dov’era più vicina l’abitazione del deceduto.
Alle sette mattutine suonava dal campanile maggiore “a finitura”, il particolare suono di una campana che annunziava la morte di una persona e dal numero di rintocchi si sapeva se il deceduto era uomo, donna, bambino o sacerdote. Terminata la “finitura”, iniziava lo scampanio a morto a cui s’univano le campane delle altre chiese. La salma veniva esposta sopra un sontuoso catafalco eretto nel centro della chiesa, circondato da centinaia di ceri e ghirlande di fiori. Nel corso della celebrazione della Messa, mentre il Clero cantava l’Ufficio dei morti, ai due lati del catafalco si collocavano dodici ragazzi, sei per lato, i quali, muniti di piatti in porcellana pieni di carbonella accesa, vi buttavano dentro dell’incenso, producendo un fumo che, commisto a quello delle candele, faceva diventare l’aria spesso irrespirabile. Al termine delle cerimonie religiose iniziava l’accompagnamento funebre, nel gergo paesano “a cunnutta”.
Accanto al feretro e dietro al Clero si ponevano i fanciulli con i piatti i quali continuavano a bruciare incenso fino al cimitero. Colà, poi veniva distribuita della cera agli intervenuti, mentre ai poveri e ai ragazzi veniva distribuito del denaro, consistente in monetine da un centesimo, un grano, un soldo e due soldi.
Nel 1945, con l’insediamento del nuovo parroco, don Calogero Genduso, questa disparità d’onoranze ai defunti fu abolita istituendo per tutti indistintamente un funerale unico. Dell’antico è rimasta una sola usanza: qualunque sia la condizione del defunto, povero o ricco, tutta quanta la popolazione gratterese si reca ad accompagnare il feretro al cimitero, porgendo le condoglianze ai parenti.
Gli altarini del mese di maggio
Per tutto il mese di maggio e ciò fino a pochi anni fa, era radicata nella popolazione gratterese la pia tradizione d’erigere gli altarini in onore della Madonna (“l’artariedda”).
In ogni e via o cortile, ove sorgeva una finestra al pian terreno delle case, essa veniva addobbata di fiori e lumini, sia ad olio che a cera, e al centro veniva posta un’immagine della Madonna. Ed ogni sera, dopo cena, puntualmente, tutti quelli del vicinato vi si disponevano d’innanzi per recitare il Rosario, a conclusione del quale intonavano inni e lodi in onore della Vergine.
Era un modo per esternare la devozione verso la Madre di Cristo e, anche se erano i ragazzi e le ragazze a recarsi nei campi a raccogliere i fiori con cui addobbare gli altarini, al Rosario partecipavano anche le persone anziane che s’intrattenevano fino a tarda sera per venerare la Vergine, che, come ha scritto uno studioso d’esegetica mariana, trova “nella Sicilia la terra classica della devozione”.
I “virgineddi”
Chi aveva ricevuto una grazia o ne aveva implorato qualcuna, faceva la promessa a San Giuseppe d’offrire i “virgineddi” in suo onore. A seconda della disponibilità finanziaria, il numero di esse variava da sette a tredici. In un giorno prestabilito, ma immancabilmente di mercoledì, (giorno questo dedicato al Santo) venivano invitate a pranzo delle ragazze nubili o, in mancanza, delle vedove alle quali s’offriva un modesto banchetto. Il pranzo consisteva in pietanze frugali, quali la pasta fatta in casa (“tagliarini”), verdure, pane e frutta. Prima d’iniziare a mangiare si faceva una preghiera in comune a San Giuseppe per ringraziarlo. Per la cena ogni ospite riceveva le derrate alimentari per consumarle a casa.
La scrittrice A. Lanza, parlando dei “virgineddi” di Gratteri, scrive: “...Vengono cotti insieme legumi freschi e secchi, finocchi di montagna e altre verdure, pasta e riso. Seguono piatti di carne, buccellati e sfince di San Giuseppe, soffici bignè ripieni di ricotta”.
“U Triunfu”
Questa cerimonia risale al periodo in cui fu parroco di Gratteri don Angelo Di Maio e cioè fino al 1945. Negli otto giovedì precedenti il Corpus Domini, nella Chiesa Madre di Gratteri, si svolgeva una pia e suggestiva funzione religiosa in onore dell’Eucaristia. Suggestiva in quanto, col tempio gremito, mentre sul tronetto dell’altare maggiore, addobbato di ceri e fiori, era esposto l’Ostensorio col Santissimo, il sacerdote Di Maio, dotato di voce tenorile, saliva sul pulpito, recitando con una mimica indescrivibile una serie di strofe in dialetto in rima baciata in onore del Cristo Eucaristia. Era una storia, avente per oggetto l’antico e il nuovo Testamento: dal peccato originale all’Ultima Cena che culmina nel trionfo di Cristo risorto. Con la morte del sacerdote, questa funzione venne abolita.